Maria l’Ebrea: tra alchimia e filosofia
Quando cuciniamo una pietanza a bagnomaria probabilmente ignoriamo che stiamo facendo riferimento ad un personaggio di grande rilievo del mondo alessandrino e di una scoperta che ha secoli di vita.
Miriam o Maria ha dato il nome al metodo di cottura detto “a bagnomaria” che si attua utilizzando un recipiente in cui bolle l’acqua sul quale se ne appoggia un altro contenente gli alimenti da cuocere. Questo metodo di cottura consente di mantenere intatto il sapore degli ingredienti dei cibi e consente una cottura più salutare di quanto non lo siano le fritture. Questo procedimento è molto utile e spesso usato in tanti processi chimici dove è necessario un riscaldamento o una cottura lenta. Il termine venne introdotto da Arnaldo da Villanova, medico, alchimista e scrittore del XIV secolo.
Tra mito e realtà Maria viene descritta in alcuni casi come una bella donna dai capelli rossi e occhi verdi, ammirata e corteggiata dagli uomini che ritenevano che l’alchimia fosse magia, altri autori invece la descrivono come una donna bruna, di grande carisma. Maria era la più nota alchimista del mondo antico e di Alessandria d’Egitto, importantissimo centro culturale dell’epoca.
La sua identità si è sovrapposta, nel tempo, a quella di altre donne alchimiste, ma è sicuramente esistita perché ci sono numerose citazioni in vari trattati e sono stati tramandati alcuni frammenti delle sue opere. La più concreta menzione di Maria nel contesto dell’alchimia proviene da Zosimo di Panopoli, alchimista che nel IV secolo scrisse il più antico testo alchemico conosciuto. Zosimo descrive molti esperimenti eseguiti da Maria e gli strumenti da lei inventati; inoltre menziona Maria come una dei “saggi” vissuti nel passato.
L’alchimia era una scienza, fino a poco tempo fa confusa spesso con la magia, il cui scopo principale era quello di trasformare i metalli in oro e argento. Oggi l’alchimia viene vista come una via spirituale di conoscenza e l’opera alchemica come studio e lavorazione della materia, nella sua struttura profonda e invisibile, allo scopo di separarne le parti sottili dalle spesse, di distillarne le parti mobili o volatili dalle fisse, potenziandone l’essenza che rigenera e sana, neutralizzandone le scorie che invece corrompono ed ammalano.
A Maria l’Ebrea sono attribuite molte teorie alchimistiche ma, secondo le fonti che ci sono giunte, a lei si deve soprattutto l’invenzione di apparecchiature sperimentali per la distillazione e la sublimazione e l’elaborazione di alcune tecniche di laboratorio che vengono utilizzate ancora oggi.
Oltre al bagnomaria, Maria inventò la prima apparecchiatura per la distillazione, il “tribikos”, un dispositivo molto particolare ed efficace per distillare liquidi, composto da un recipiente in terracotta, un alambicco per condensare il vapore, tre beccucci di erogazione in rame e diverse ampolle di ricezione in vetro, le cui parti erano collegate e isolate mediante un impasto di farina da lei ideato e raffreddate da spugne fredde.
Altra sua invenzione fu il “kerotakis”, un’apparecchiatura per la sublimazione di sostanze. Maria esponeva i metalli ai vapori continui di arsenico, mercurio e zolfo fino al punto in cui liberavano il solfuro nero – il “nero di Maria” – ritenuto il primo stadio della trasmutazione verso l’oro.
Durante il regno dell’imperatore Diocleziano gli alchimisti alessandrini vennero perseguitati e i loro scritti bruciati. Ma la tradizione non venne interrotta completamente e l’alchimia continuò ad essere praticata durante il medioevo e l’età moderna finché da essa si sviluppò la chimica nel XVII secolo.
L’opera principale attribuita a Maria è “Il dialogo fra Maria e Aros sul magistero dell’alchimia”, sopravvissuto attraverso una citazione da parte di un anonimo filosofo cristiano. In questa opera, Maria dialoga con il filosofo Aros e descrive operazioni che saranno in seguito la base dell’alchimia, come la leukosis (sbiancamento) e xanthosis (ingiallimento). In particolar modo, sono esposti i cosiddetti Assiomi di Maria, che ad una prima lettura sembrano incomprensibili.
Primo assioma: «L’uno diventa il due, il due diventa il tre e per mezzo del terzo si compie l’unità»
Probabilmente si tratta di una descrizione delle quattro fasi dell’alchimia che presero il nome dai quattro colori fondamentali della pittura greca: nero (Nigredo), bianco (Albedo), giallo (Citrinitas) e rosso (Rubedo). Esse furono inoltre poste in relazione ai quattro elementi naturali: fuoco, aria, acqua, terra, da cui, secondo gli antichi filosofi greci, traeva origine ogni sostanza di cui è composta la materia e dal cui equilibrio dipendeva la vita della specie umana e la sua sopravvivenza. Le quattro fasi dell’alchimia furono anche messe in connessione con le quattro stagioni e le quattro fasi del giorno: mattina, pomeriggio, sera e notte. Alle varie fasi corrispondevano dei precisi processi chimici da eseguire: ad esempio, alla Nigredo poteva essere associato il nero della putrefazione, all’Albedo poteva essere associata la purificazione ottenuta per distillazione oppure calcinazione, alla Citrinitas la combustione, e infine alla Rubedo la sublimazione o la fissazione. La calcinazione consisteva nel riscaldamento ad alte temperature di miscele semisolide, fino a farne evaporare tutte le sostanze volatili; la fissazione, viceversa, consisteva nell’addensamento di un elemento liquido.
Jung, una delle principali figure intellettuali del pensiero psicologico e psicoanalitico vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, nella sua opera “Psicologia e alchimia” considera l’alchimia una metafora della crescita psicologica e mostra la natura psichica dell’opera alchimistica. Jung ravvede nella complessa e millenaria tradizione alchemica la presenza di motivi psichici essenziali: un mondo simbolico assai più ricco di insegnamenti di quanto lasci supporre la sua riduzione a semplice e ingenuo tentativo di trasformare la materia in oro. Per Jung la tradizione alchimistica e la pratica analitica sembrano avere una comune natura, mirano entrambe a creare una realtà nuova e superiore: da una parte l’oro, la pietra filosofale, dall’altra la “presa di coscienza” della psicologia moderna. L’alchimia sarebbe in sostanza espressione di un movimento religioso, la pulsione a trasformare la “materia prima” dell’esperienza in conoscenza.
Secondo assioma di Maria: «In tre è bello, in quattro è ancora più bello».
Per poter interpretare tale assioma, si deve fare riferimento sempre a Jung che cita espressamente tale assioma nell’opera già menzionata “Psicologia e alchimia”. Egli afferma che Maria in questo secondo assioma probabilmente fa riferimento alle quattro dimensioni dell’amore. Esse possono essere viste come quattro diversi segmenti che, incrociandosi fra loro, individuano un unico punto centrale. I primi tre segmenti corrispondono a tre dimensioni dell’amore bello: spazio fisico necessario per incontrare l’altro, medesimo momento temporale necessario affinché avvenga l’incontro, casualità dell’incontro. Per rendere l’amore ancora più bello ed elevarlo ad una dimensione superiore, deve essere presente un quarto aspetto che, secondo Jung, è la sincronicità. Il termine non è sinonimo di “sincronismo”, che denota la semplice simultaneità di due eventi. La sincronicità significa anzitutto la simultaneità di un certo stato psichico con uno o più eventi collaterali significanti in relazione allo stato personale del momento. La sincronicità descrive la sorpresa che si verifica quando un pensiero nella mente si riflette in un evento esterno, senza che vi sia alcuna connessione causale apparente. Con queste quattro dimensioni si raggiunge l’amore più bello e si viene a creare, nell’interpretazione junghiana, il punto perfetto.
Ci sorprende che le idee di Maria l’Ebrea, personaggio tra il mito e la realtà, vissuta tanti secoli fa, abbiano suscitato l’interesse e l’approfondimento di Jung, il cui pensiero oggi è ancora molto attuale.
Dopo aver letto la storia di questa straordinaria donna, la si ricorderà certamente preparando pietanze a bagnomaria.
Ernesta De Masi