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Il ruolo delle donne nella Resistenza: una storia ai margini

“Va a fa’ a calzetta”[1], questa fu la voce che si levò dalla folla nei confronti della partigiana Elsa Oliva, scesa in piazza il 25 aprile 1946 a Domodossola per festeggiare il primo anniversario della liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Una dichiarazione pubblica che è un richiamo all’ordine, un invito a ritornare nello spazio domestico, considerato il posto “naturale” delle donne, un modo per ristabilire i ruoli di genere nella gerarchia sociale. Se da un lato agli uomini spetta la partecipazione alla vita pubblica, dall’altro, le donne sono da sempre relegate alla sfera privata e riproduttiva. Da secoli la società, la cultura e le relazioni si fondano su una struttura di potere patriarcale che si riproduce anche attraverso il linguaggio.
Le partigiane erano state d’ “aiuto” nella guerra contro i tedeschi, avevano preso parte alla lotta in maniera diretta, avevano sostituito i mariti al fronte svolgendo diversi lavori e avevano preso il loro posto in famiglia. Adesso che la guerra era finita e l’Italia si apprestava a diventare una Repubblica democratica, il desiderio di emancipazione che tante donne avevano provato attraverso l’esperienza della lotta non aveva più ragione di esistere.
Il tentativo di delegittimazione del ruolo delle partigiane si era manifestato, però, già alla loro entrata in guerra. Quando la partigiana Olga Prati nel ‘43 raggiunse i suoi compagni di brigata, venne accolta dal comandante con queste parole “Meno male che sei arrivata, guarda come sono strappati i miei pantaloni”. Ma Prati gli rispose senza mezzi termini “Ecco ago e filo, rammenda, io sono venuta per combattere, non per riparare vestiti”[2]. La guerra era faccenda di uomini. Le donne, fuori dall’ambito domestico, al massimo potevano ricoprire un ruolo ancillare, di supporto e assistenza, senza ambire a posizioni di rilievo perché non avevano le caratteristiche adatte ad un contesto bellico. Stavano evidentemente occupando uno spazio che non era stato disegnato per loro, e se lo facevano dovevano sottostare alle regole decise dagli uomini.

Sempre la stessa Oliva, dopo aver preso parte, nel maggio 1944, alla seconda brigata della divisione “Beltrami”, disse ai compagni “Non sono venuta qua per cercare un innamorato. Io sono qui per combattere e ci rimango solo se mi date un’arma e mi mettete nel quadro di quelli che devono fare la guardia e le azioni. In più farò l’infermiera. Se siete d’accordo resto, se no me ne vado.
Avevo un’arma, non ero solo l’infermiera. Al primo combattimento ho dimostrato che sapevo combattere come loro e che l’arma non la tenevo solo per bellezza, ma per mirare e per colpire. Curavo i miei compagni, ma non li servivo. Se uno voleva un panino, se lo faceva; se uno doveva lavare la gavetta o i calzini, se li lavava lui. Io non ero andata da loro per lavare i piatti, per rattoppargli i pantaloni, io ero andata per combattere.” [3]

All’indomani della liberazione dell’Italia, mentre la popolazione scendeva in strada in tante città dopo anni di occupazione tedesca, bombardamenti, rastrellamenti e violenza, i capi di brigata e i dirigenti di partito cercarono di impedire alle partigiane di sfilare in corteo insieme ai compagni, oppure furono invitate a farlo senza armi o vestite da crocerossine. Alle partigiane torinesi delle brigate Garibaldi fu impedito di sfilare perché il PCI “ci teneva ad accreditarsi come forza rispettabile” [4]. Secondo questa logica, le partigiane facevano perdere di credibilità e rispettabilità chi si era distinto in guerra e aveva “realmente” contribuito alla liberazione del paese dai nazifascisti. Un’affermazione che conferma come la partecipazione delle donne fosse considerata un’esperienza estemporanea, accessoria e ausiliaria rispetto alla centralità data in guerra dalla componente maschile. Questo sia perché l’esperienza antifascista non era percepita come un terreno di lotta comune e condiviso anche con le donne che ne avevano preso parte, ma anche perché si temeva che la loro presenza avrebbe sminuito il valore morale della Resistenza, visto che era pensiero diffuso che le partigiane offrissero prestazioni sessuali in battaglia. Infatti erano spesso additate come le “femmine dei partigiani”, o “quelle che i partigiani portavano nel bosco” e tante furono le maldicenze che dovettero subire sul finire della guerra, dal momento che era impensabile che una donna potesse imbracciare un’arma e combattere al fianco degli uomini.

Un immaginario sessista che ricalca la divisione operata storicamente sui corpi delle donne, quella tra sante e puttane, funzionale al mantenimento dell’ordine patriarcale. Quando una donna mette in discussione le dinamiche di potere e non si allinea allo stereotipo che il sistema ha deciso per lei, viene ricondotta immediatamente a una di queste due categorie. Nel caso delle partigiane, o crocerossine o prostitute. Il regime fascista aveva rafforzato lo stereotipo della donna in quanto moglie-madre-casalinga, chiamata a rispondere ad un dovere superiore, quello riproduttivo della nazione: i suoi figli erano figli della patria, da impiegare nella guerra in nome del bene collettivo. La lotta delle partigiane non è stata soltanto una lotta per la liberazione dall’occupazione fascista del Paese, ma è stata una lotta contro l’occupazione e la conquista del proprio corpo, considerato una macchina da riproduzione, privato di volontà, desideri, libertà e dignità, un corpo di cui non potevano disporre liberamente perché di proprietà del regime, di cui si serviva attraverso il controllo esercitato da padri, mariti, figli. All’immagine della donna subordinata al sistema di oppressione fascista, le partigiane, attraverso le proprie azioni e il proprio operato, hanno contrapposto l’immagine di una donna che voleva dirsi liberata da un modello patriarcale che l’aveva a lungo imprigionata. La loro decisione di partecipare alla liberazione è stata una scelta libera, dettata da un senso di giustizia in nome del quale molte di loro hanno perso la vita e subito soprusi e torture. Una scelta personale e collettiva in cui si sono compiuti l’affrancamento dai ruoli imposti, la liberazione del popolo e la realizzazione della futura democrazia.

Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: – Ahi, povera Italia! – perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e s’erano scaraventate in città.
Questo estratto, contenuto in uno dei racconti de “I ventitré giorni della città di Alba” di Beppe Fenoglio ci fa capire come le donne partigiane con i loro corpi – gli abiti maschili, le facce, l’andatura – stavano continuando ad infrangere non solo gli ordini impartiti, ma anche le norme di genere, per riprendersi uno spazio pubblico che equivaleva al proprio riconoscimento politico. Un giudizio che è ricaduto immediatamente sul corpo, segno che ad essere intollerabile era la loro stessa presenza e il loro modo di mostrarsi in pubblico, una dinamica che mai si pensava – e si pensa tuttora – di applicare alla controparte maschile. Basti pensare oggi a tutte le soggettività femminili che ricoprono posizioni di maggiore rilievo soprattutto in quei campi tradizionalmente considerati appannaggio maschile, un’appropriazione “indebita” pagata a prezzo di varie forme di delegittimazione che si manifestano in maniera più o meno sottile, che vanno dagli insulti, offese e discriminazioni, a forme di sessismo benevolo fino all’oggettificazione sessuale.

Alla liberazione hanno preso parte circa 70 mila donne che facevano parte dei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà (GDD), 35 mila partigiane combattenti, 20 mila patriote con funzione di supporto, circa 4600 furono quelle arrestate e torturate, più di 2700 furono deportate nei campi di concentramento, 19 furono decorate con la medaglia d’oro e 17 con quella d’argento.
Accanto alle azioni di guerra nelle brigate clandestine, le partigiane erano impegnate anche in forme di resistenza più pacifiche: sabotavano la produzione bellica nelle fabbriche, prendevano parte agli scioperi e manifestavano davanti alle caserme, facevano circolare la stampa clandestina, rivestivano con abiti civili i militari allo sbando dopo l’armistizio e offrivano sostegno e supporto alle famiglie di partigiani, carcerati e deportati.
Il processo di marginalizzazione delle esperienze delle partigiane, già visibile in guerra, è proseguito nel tempo. Esse sono state estromesse dalla narrazione ufficiale e relegate ai margini di una storia che non ha riconosciuto fino in fondo i ruoli che hanno ricoperto nella lotta armata, e per questo sono state condannate al silenzio e all’invisibilità.

A partire dagli anni Settanta, studi e ricerche hanno riportato al centro dell’attenzione l’apporto cruciale dato dalle donne nella Resistenza, restato per lungo tempo sminuito, misconosciuto e dimenticato. Eppure migliaia di partigiane hanno rivestito incarichi fondamentali. Queste non prestavano soltanto soccorso e assistenza, erano staffette, combattenti, alcune di loro divennero comandanti di brigata, altre davano ospitalità a ebrei, partigiani, antifascisti e disertori politici, mettendo continuamente a rischio la propria vita. Quello di staffetta era una mansione particolarmente ardua, in quanto le partigiane, solitamente disarmate, dovevano percorrere diversi chilometri in bicicletta o a piedi, a qualsiasi condizione atmosferica per portare ordini, armi, alimenti e rifornimenti tra un distaccamento e l’altro, cercando di sfuggire ai fascisti, che le avrebbero torturate e uccise. Un ruolo che molte di loro reputavano riduttivo perché essere una staffetta significava molto di più e comprendeva incarichi che la designavano a tutti gli effetti una combattente. Quello che viene definito un semplice “contributo femminile” in termini materiali, logistici e organizzativi fu in realtà la base della lotta partigiana e della vittoria contro il nazi-fascismo.
Nonostante ciò, nel dopoguerra, il rientro dei reduci di guerra portò all’esclusione delle donne dal mercato del lavoro, grazie al quale negli anni precedenti avevano fatto esperienza di autonomia e indipendenza, lavorando come operaie, postine, impiegate statali e furono ben presto costrette a ritornare nell’ambito domestico, ricondotte al ruolo di mogli e di madri. In questo periodo le donne hanno faticato a vedersi riconosciuti diritti che erano stati messi su carta con l’approvazione della Costituzione, e a farsi largo nella politica così come in altri settori della società. Con la nascita della Repubblica erano poche le donne a rivestire incarichi istituzionali a causa dei pregiudizi che rimettevano alla “natura” – cioè ad una presunta “essenza” femminile – una condizione sociale frutto di uno specifico sistema di oppressione e di dominio fondato su dinamiche di potere fra i generi. Per le donne, la possibilità di eleggere ed essere elette, conquistata grazie alla lotta partigiana e all’elaborazione politica rispetto alla propria condizione sociale, è stata interpretata come una concessione maschile elargita a patto che le donne continuassero a dedicarsi alla famiglia e non dimenticassero il ruolo secolare di “angeli del focolare”. “Abbiamo bisogno di voi soprattutto come spose e madri”, dichiarò il leader democristiano De Gasperi al I convegno nazionale del Movimento Femminile della DC.
Insomma, il posto a loro predestinato restava la casa. Dopo decenni di guerra e morte, si doveva pensare alla ricostruzione del paese, figuriamoci se la loro volontà di partecipare alla vita politica e mettersi a servizio della nascente democrazia potesse contribuire a stravolgere l’ordine costituito.
Ma la Resistenza aveva segnato un punto di non ritorno, in cui l’emancipazione sociale e politica vissuta dalle donne non poteva essere messa da parte, men che meno essere scalfita da quella parte di società che deteneva poteri e privilegi dettati unicamente dal proprio genere d’appartenenza. La Resistenza, come una forza ardente, un desiderio di libertà e giustizia, ha spinto le donne, non senza difficoltà, alla conquista di nuovi spazi e ruoli sociali. Un percorso aperto che è stato l’anticamera delle molteplici lotte e istanze con cui facciamo i conti ancora oggi.
Come disse Marisa Rodano, partigiana e parlamentare italiana ed europea, nel suo intervento alla Camera dei Deputati nel 2015:
“La partecipazione delle donne alla Resistenza è stata dunque il fondamento per la conquista dei loro diritti civili, sociali e politici. È conferma che il cammino delle donne italiane verso la conquista di piena cittadinanza, che vede oggi tante donne ricoprire cariche di responsabilità nel governo, nel parlamento, nelle Regioni e negli enti locali, e svolgere ruoli importanti nella vita culturale, economica e produttiva, ha le radici nella loro partecipazione alla Resistenza.”[5]

La Resistenza è stata un periodo storico in cui le donne hanno preso coscienza della propria condizione e del proprio ruolo nella società, ha contribuito a costruire una consapevolezza di massa che ha attraversato orientamenti politici, classi sociali e livelli culturali diversi e ha condensato le rivendicazioni sociali, civili e politiche che sono state avanzate a partire dal quel momento, sfidando gli stereotipi e i pregiudizi del maschilismo dominante. La Resistenza ha tracciato la strada dei diritti e della libertà, intesa come autodeterminazione e capacità di stare dalla parte giusta della storia. È nostro compito, adesso, vigilare sui diritti conquistati dalle generazioni precedenti perché essi non sono dati una volta per tutte, ma devono essere difesi con un lavoro costante e con pratiche femministe di giustizia e solidarietà sociale.

[1] https://www.inventati.org/donnola/materiali/elsa_oliva.html

[2] Filippo Maria Battaglia, Stai zitta e va’ in cucina : breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo, Bollati Boringhieri, Torino 2015

[3] https://www.inventati.org/donnola/materiali/elsa_oliva.html

[4] https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o46438:m2

[5] https://www.eticapa.it/eticapa/intervento-di-marisa-rodano-alla-camera-dei-deputati-in-occasione-del-70imo-anniversario-della-liberazione/

Claudia Alfano

 

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