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La Bomba

Salvador Dalì, La persistenza della memoria (1931), Museum of Modern Art, New York
Immagine: MoMA

L’uso (o abuso) della Scienza per la guerra è un problema antico che ha seguito l’umanità nel corso della Storia. Stanley Kubrick nel film 2001: Odissea nello spazio (1968) ha mirabilmente mostrato come l’invenzione di strumenti di difesa abbia permesso ai primati dell’uomo di sopravvivere in un ambiente ostile, dando però loro anche armi di offesa. L’Età del Ferro ha visto la produzione di armi superiori, che hanno privilegiato i loro detentori. Analoghi effetti di nuove conoscenze si sono verificati con crescente rilevanza lungo il corso della storia: come esempio, pensate alla polvere da sparo. E, da sempre, lo sviluppo di armi ha avuto valenze sostanzialmente diverse e non definibili a priori: offesa, difesa, e anche potere deterrente. Il potere deterrente ha perfino caratterizzato periodi di pace, o di non belligeranza, secondo quello che gli storici chiamano Politica di equilibrio e che consente una almeno temporanea coesistenza di soggetti di forza equivalente: ne sono classici esempi l’Italia del Rinascimento (citiamo la politica di Lorenzo il Magnifico e la Pace di Lodi del 1454) e l’Europa post-napoleonica come uscì configurata dal Congresso di Vienna del 1814-1815.

Con il crescere della potenza degli armamenti, il divario tra potere deterrente, difesa e offesa si è via via amplificato, divenendo drammatico con gli armamenti nucleari ma sempre nel permanere di una mancanza di definizione d’uso a priori. Il controllo sul loro impiego in caso di guerra fugge agli scienziati come ai cittadini. Le decisioni sono prese dai governi degli Stati e esse dipendono dall’evolversi delle circostanze, non definibile a priori. E in guerra il confine tra difesa e offesa non è chiaramente marcato.

Lo sviluppo della Fisica Nucleare fu contemporaneo alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale e fatalmente vi si intersecò: l’enorme energia che si può sprigionare dal nucleo apparve utilizzabile anche fini bellici, con tremendo potere distruttivo e una corrispondente valenza deterrente. In questo conflittuale dilemma, nacque “la bomba” e fu data in mano allo Stato. Quando la si evoca, sorge sempre spontanea l’esigenza di una rinnovata riflessione sull’identità della Scienza e in primo luogo la pratica domanda: quale fu la posizione degli scienziati più direttamente toccati dal dilemma? È complesso, se non impossibile, rispondere genericamente.

Citiamo solo la posizione di Einstein. In una famosa lettera al Presidente Roosvelt, nel 1939 egli appoggiò l’avvio del Progetto Manhattan con lo scopo di studiare la possibilità di realizzare una bomba nucleare. Le sue parole ne fanno comprendere la motivazione originaria:

“I understand that Germany has actually stopped the sale of uranium from the Czechoslovakian mines which she has taken over. That she should have taken such early action might perhaps be understood on the ground that the son of the German Under-Secretary of State, von Weizsäcker, is attached to the Kaiser-Wilhelm-Institut in Berlin where some of the American work on uranium is now being repeated”.

(Capisco che la Germania ha di fatto bloccato la vendita di uranio dalle miniere cecoslovacche, delle quali ha preso possesso. Tale azione precoce potrebbe forse essere collegata al fatto che il figlio del Sottosegretario di Stato tedesco, von Weizsäcker, lavora al Kaiser-Wilhelm-Institut di Berlino, dove sono ora ripetuti alcuni dei lavori americani sull’uranio.)

Einstein temeva che la Germania nazista divenisse l’unico possessore della bomba, con le immaginabili disastrose conseguenze per l’umanità. Fu il fatale avvio alla corsa agli armamenti nucleari, l’uno per paura dell’altro. Verso la fine del 1942, Fermi e il suo gruppo costruirono a Chicago la prima “pila” (oggi diremmo “reattore”) nucleare e così diede prova che con i neutroni “lenti” si possono innescare reazioni nucleari a catena. Lo scopo d’uso era pacifico, ma fu comunque un passo importante per la dimostrazione della fattibilità della bomba.

L’uso della bomba a Hiroshima e Nagasaki contro il Giappone fu deciso dal Presidente Truman nel 1945, ormai verso la fine della guerra. La bomba fu sganciata senza preavviso su Hiroshima il 6 agosto e poi anche su Nagasaki, il 9 agosto. Pochi mesi dopo, il 3 ottobre, Truman scrisse al Congresso :

“That bomb did not win the war, but it certainly shortened the war. We know that it saved the lives of untold thousands of American and Allied soldiers who would otherwise have been killed in battle”.

(La bomba non ha vinto la guerra, ma l’ha certamente abbreviata. E sappiamo che essa ha risparmiato la vita di migliaia di soldati americani e alleati che sarebbero altrimenti caduti in battaglia.)

Drammaticamente, la bomba non fu così mantenuta come un deterrente cautelativo per prevenire un attacco da parte di altri. Essa fu usata in un’azione di guerra e, per di più, colpendo inermi popolazioni civili al fine di forzare indirettamente una resa militare del Giappone. Fu una scossa profonda alle sincere coscienze e pose pesanti interrogativi agli scienziati, negli Stati Uniti e nel mondo.

La “guerra fredda” dopo la fine del conflitto si protrasse con una situazione di equilibrio reciprocamente basato sul terrore. Le esplosioni di prova per ordigni sempre più devastanti si susseguivano paurosamente, giungendo al pubblico quasi come fatti di cronaca internazionale. Dal mondo della scienza e della cultura venne nel 1955 il cosiddetto Manifesto di Russell-Einstein per promuovere il disarmo nucleare, seguito dal movimento Pugwash. Da allora sono stati fatti sostanziali progressi con accordi tra le grandi potenze. Ma il pericolo esiste e spaventa ancora, e in particolare riguardo a conflitti che vedano coinvolte nazioni che ora sono in possesso della tecnologia.

Per il Giappone Hiroshima e Nagasaki incarnarono un dramma tremendo, che si aggiunse ai disastri e agli sconvolgimenti epocali portati dalla guerra: basti pensare all’annullamento del millenario concetto di dio-imperatore e alle radicali riforme imposte come governatore dal generale McArthur, che giunsero perfino al sistema scolastico ed educativo in generale. Il dramma di Hiroshima e Nagasaki ha continuato a colpire con le agonie e le perduranti sofferenze nei corpi e nelle menti dei sopravvissuti. Le persone colpite furono tante da avere un nome a parte: “hibakusha”. Il dramma vive ancora nel profondo delle persone, pur con la riservatezza di sentimenti di cui pochi popoli sono capaci. Per averne un’idea, vedete i film di Akira Kurosawa Vivere nella paura (1955) e Rapsodia in agosto (1991). In quest’ultimo, anni dopo una anziana hibakusha segnata dall’evento rivive nella tragedia credendo di vedere in una nuvola di tempesta il “fungo” della bomba, e dalla sua tradizionale casa di campagna corre nella bufera verso Nagasaki volendo portare soccorso al marito, a suo tempo vittima della bomba. In spirito giapponese, con questa scena Kurosawa fa immaginare senza mostrarla la tremenda distruzione causata dal “sole nucleare” acceso qualche centinaio di metri sopra alla città. L’effetto è profondo e indimenticabile.

Uno dei fotogrammi iniziali di “Rapsodia in agosto” di Akira Kurosa

Con spirito sottile, e così più penetrante di qualsiasi manifestazione più esplicita, nello stesso film Kurosawa fa intuire la persistente complessità dei sentimenti giapponesi verso gli americani: autori materiali (qualunque sia l’origine primaria della guerra) di una distruzione non dimenticabile, vincitori e occupanti, poi politicamente alleati ma con un Giappone non autosufficiente in difesa militare, parte ambedue di uno stesso mondo globalizzato anche se di cultura e tradizioni di grandissima diversità, tanto da fare apparire minori quelle che possiamo trovare all’interno dell’Europa perfino intesa nel senso più largo. È una complessità raramente toccata da parole esplicite: con la sua presenza sotto la superficie, essa genera un’impressione più profonda che se fosse banalmente esternata. Anche le radici sono parte implicita di un albero.

Il “fungo” della bomba sganciata su Nagasaki. Keystone / Nagasaki Atomic Bomb Museum
Immagine Swissinfo

Ora, si arriva a Hiroshima come in qualsiasi città del Giappone. La vita ha ripreso il suo corso, gli alberi crescono, la Natura è incredibile nella sua pulsione a riprendere possesso di quello che è suo. Sfociando nella zona aperta ove era il cuore della città e ove fu il centro della devastazione, si inizia a rivivere l’orrore. Immagini insostenibili sono poste dinanzi a noi in quello che ci turba e vergogna chiamare Museo. Infatti, a questa parola hanno premesso “Peace Memorial”. Gli occhi si rifugiano a guardare un orologio semifuso e fermo all’ora dell’esplosione: 8:16:08 del 6 agosto 1945. Per circa 130000 “umani” il tempo si fermò con quell’orologio.

Un numero ancora maggiore patì atroci sofferenze seguite da morte. Centinaia di migliaia di persone continuarono a vivere almeno per qualche tempo con gli effetti della bomba nel proprio corpo e nella propria psiche. Alcuni li portano ancora: sono passati meno di settant’anni. Non mostro l’orologio di Hiroshima, mostro un dipinto da veggente del surrealista Salvador Dalì. Il Surrealismo è talvolta realismo mentale.

Le indelebili emozioni che si provano visitando Hiroshima sono tanto forti che ci impongono di andare più in alto e più lontano di ogni sentimento di accusa o rancore. Come per ogni grande tragedia portata da mano umana, esse non possono che sublimare in un grido di Pace, di “necessità” di Pace. Si capisce perché i giapponesi stessi chiamano il luogo “Peace Memorial”. Un pellegrinaggio di orrore muta in pellegrinaggio di Pace. Mai più tali orrori. La guerra travolge e stravolge tutto, usando i risultati della Scienza per distruggere e non per il sapere e per il benessere umano. Vorremmo poter dire “mai più guerra”. Chiediamo opere di salvaguardia della Pace.

Il dramma di Hiroshima e Nagasaki ci impone costantemente l’interrogativo sul perché fare Scienza, Qual è la nostra motivazione come scienziati? Qual è la nostra motivazione come cittadini? Ecco delle risposte. Il desiderio di conoscenza è innato nella natura umana: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, dice Ulisse nella Divina Commedia di Dante Alighieri (Canto XXVI dell’Inferno, vv. 119-120). Le possibilità di applicazioni per migliorare la vita delle persone o dell’ambiente in cui viviamo forniscono uno stimolo pratico. Se ancora non le vediamo, lasciamo tempo al tempo. Ma la preoccupazione che qualche particolare sviluppo della Scienza possa essere “usata” per “altri” fini, in un futuro che non vorremmo, impone una vigile coscienza, da scienziati e da cittadini.

Paolo Strolin.

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