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Guerino Galzerano: lo scultore “folle” di Castelnuovo Cilento


Mi hanno chiamato folle, assassino, pover’uomo, grande artista, scultore. Non so quali di queste definizioni mi si addica di più. Di sicuro sono stato sempre povero. Di sicuro ho fatto tutto con le mie mani, letteralmente.

Sono nato il 1922, l’anno dei pazzi e la mia vita non poteva che essere caratterizzata da una continua follia. Così almeno dicono loro, quelli che mi hanno rinchiuso e mi hanno accusato. Ero un contadino, sono rimasto contadino anche da soldato, sono rimasto contadino anche quando mi hanno dato per morto in guerra. Sono rimasto contadino anche quando mi hanno accusato di aver ucciso mio cugino Emanuele. L’accusa era una, una soltanto: non aver pianto al suo funerale. Non mostrare i propri sentimenti era una colpa per il maresciallo, una pena per me che ero abituato a trattenere ciò che provavo.

Sì, perché qui nel Cilento la dignità, la volontà di saper soffrire ci vengono insegnate da piccoli. Il Cilento è la terra del silenzio, del saper affrontare se stessi e i propri dolori senza spettacolarizzarli. Siamo nati per agire, non per mostrare. La nostra terra ci mostra già abbastanza ogni giorno e noi dobbiamo solo rispettarla e lavorare. Le nostre mani servono a questo, a questo soltanto: a rimboccarci le maniche. Nessuno ci regala niente, nessuno ci aiuta, è tutto frutto della nostra volontà di scegliere.

Sono stato portato via dalla mia terra per un’accusa folle, ma c’è chi ha creduto alla mia innocenza, c’è chi ha visto in me quella sofferenza di anni passati a reprimere il dolore della morte di mio padre, di una guerra che mi aveva dato per disperso, di una terra che continuavo a sognare e a non vedere. Ci sono uomini falsi e uomini giusti. Il senatore Pietro Adinolfi si è battuto per la mia innocenza e ha vinto. Non ha voluto soldi, né onori, ha voluto solo la verità. E io folle sì, per aver creduto di poter iniziare una nuova vita. E sono ripartito sempre da qui, dalle mie mani.

Non sono mai stato un uomo che si sottrae ai suoi doveri, mi sono innamorato di Teresa e l’ ho sposata. Così fanno i veri uomini. Ma il lavoro era sempre troppo poco e così sono partito. Di nuovo. Lontano dalla mia terra e dai mie affetti, pronto sempre a reprimere i miei sentimenti. La fredda Germania mi ha accolto con un lavoro. È lì che le mie mani hanno dato vita alla costruzione, alla creazione di qualcosa di diverso. Mi hanno sempre visto tutti come un diverso, ma non le mie pietre, non la mia arte. E mentre in terra straniera imparavo nuovi modi di stare al mondo, qualcuno dal mio paese pensò di avvisarmi su un presunto tradimento di mia moglie. E qual è la reazione di un uomo che ha imparato a vivere solo con le sue mani? Qual è la reazione di quel contadino, chiamato folle e assassino? Per dovere del suo onore e della sua terra, questo pover’ uomo, che son io, torna in patria a farsi giustizia da solo.

Ed eccomi qui, nei panni dell’ assassino dopo aver ucciso mia suocera e un amica di mia moglie. Perché? Perché a volte è più facile prendersela con le persone intorno che con la diretta interessata. Le mie emozioni erano ancora tutte lì, chiuse dentro di me. Avevo fatto il mio dovere di uomo tradito ed ora mi aspettava il carcere, ma non uno qualunque, un manicomio. E così si riparte per la terza volta, lontano da casa, ad espiare le mie colpe e quelle della mia terra. Perché a volte il silenzio del Cilento nasconde verità dolorose che non dovrebbero essere svelate e la colpa sta in chi non sa custodirle. La vera voce del Cilento è il silenzio perché solo lì si può trovare la pace. Le maldicenze, le cattive intenzioni, le diffamazioni gratuite creano morti e sofferenze, per questo è nel silenzio che poi ho ritrovato le mie mani. Quelle delle costruzioni, della scultura.

Nel manicomio di Aversa ho rimesso a posto i pezzi di me stesso e ho iniziato a comporre. Quelle pietre del fiume sono diventate arte, sculture. Un piccolo sasso, incastonato nel modo giusto, acquista il suo significato e ogni vita diventa arte, anche la più folle, persino la mia. E tu, viandante che passi qui davanti casa mia, nella mia casa rivestita di pietre, ricorda che il Cilento e la tua vita sono costruzioni semplici ma fragili perché ogni sasso deve stare al posto giusto ma apparentemente sempre in bilico. Come me e come te che sei qui alla ricerca di qualcosa che persino un folle come me sa rimettere tutto al posto giusto.

Mi hanno chiamato in tanti modi e tutti mi appartenevano, ma nessuno mai mi ha chiamato con quello che mi definiva di più: cilentano. Un nome che esiste solo come aggettivo, come me del resto io, che esisto solo se aggiungo pietre e arte dove gli altri vedono mura. Ora sta a te,viandante, scegliere se essere nome o aggettivo.

Barbara Maurano

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