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Apollo e Dafne: il marmo prende vita

Gian Lorenzo Bernini nacque a Napoli nel 1598 e morì a Roma nel 1680. Bernini è considerato il più importante artista del Seicento: scultore, pittore, architetto, scenografo, urbanista, raggiunse sempre e, in ogni campo, livelli di assoluta eccellenza.

Nel 1615, a soli diciassette anni, era già un brillante professionista che lavorava a fianco del padre Pietro, come lui scultore, al servizio del papa regnante, Paolo V, del cardinale Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII e soprattutto di Scipione Borghese.

Proprio il cardinale Borghese offrì al giovane Bernini la prima grande occasione della sua carriera: i quattro gruppi scultorei che avrebbero fatto la sua fortuna di artista. Queste opere, commissionate da Scipione nel 1618 per la sua villa Borghese al Pincio, e conosciute come Statue Borghese, andarono ad arricchire la già famosa collezione d’arte del cardinale e ancora oggi si trovano a Roma, nella Galleria Borghese. Si trattano dell’Enea e Anchise, del Ratto di Proserpina, del David, dell’Apollo e Dafne.

Il gruppo scultoreo di Apollo e Dafne fu scolpito da Bernini tra il 1622 e il 1625. Il soggetto non era nuovo nella storia dell’arte ma gli scultori non lo avevano mai affrontato. Bernini osò quanto sino ad allora era apparso impossibile: rappresentare nel marmo un corpo umano che si trasforma in pianta.

“Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e: «Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere, dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui». Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra, il petto morbido si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici, il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.
Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco,
sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo, ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae. E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia, sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno, o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra; e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei. Fedelissimo custode della porta d’Augusto, starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo.
E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa, anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!». Qui Febo tacque; e l’alloro annuì con i suoi rami appena spuntati e agitò la cima, quasi assentisse col capo”.

Soggetto del gruppo scultoreo è la favola di Ovidio tratta dalle Metamorfosi, dove si narra di Apollo che, a causa di una vendetta di Eros, è da lui colpito con una freccia d’oro che lo fa invaghire della ninfa Dafne, seguace di Diana. La fanciulla, invece, trafitta da un dardo di piombo, rifiuta l’amore del Dio e prega suo padre Peneo, divinità fluviale, di farle cambiare sembianze. L’opera rappresenta il momento culminante della metamorfosi di Dafne in albero di alloro. Bernini crea una messa in scena teatrale, nella quale l’occhio dello spettatore segue lo sviluppo della trasformazione.
In origine la scultura era collocata sul lato della stanza contiguo alla cappella, poggiava inoltre su un basamento più basso dell‘attuale, espedienti utili ad aumentare l’effetto scenografico dell’opera e il conseguente coinvolgimento emozionale dello spettatore.

La scultura Apollo e Dafne fu commissionata al Bernini dal cardinale Scipione Caffarelli-Borghese. Fu anche l’ultima richiesta che il famoso collezionista fece all’artista. Lo scultore iniziò l’opera all’età di ventidue anni, nel 1622. Fu poi costretto ad interrompere i lavori nell’estate del 1623. Doveva terminare infatti il David commissionato dal cardinale Alessandro Peretti. Bernini riprese cosi l’esecuzione di Apollo e Dafne nel 1624 con l’aiuto dello scultore Giuliano Finelli che si occupò delle radici e delle foglie. Nel 1625 la scultura fu terminata e ottenne immediatamente un grande successo.

Con il gruppo scultoreo Apollo e Dafne, Bernini riesce a conferire alle due figure un senso di movimento prima di allora sconosciuto alla tradizione scultorea. La gamba sinistra di Apollo, infatti, appare appena sollevata dal suolo, mentre il braccio destro spinto all’indietro equilibra lo slancio della corsa. Il leggiadro corpo nudo di Dafne, invece, per sfuggire all’indesiderato abbraccio si inarca in avanti, con un colpo di reni, in un ultimo anelito di libertà. La sfortunata ninfa urla disperata e, mentre Apollo sta già ghermendola con la mano sinistra, i capelli e le mani iniziano a trasformarsi in rami di alloro, le dita dei piedi diventano radici che bloccano la corsa e la pelle liscia del corpo si è già fatta ruvida corteccia.

Con Apollo e Dafne, Bernini raggiuse la più alta e compiuta espressione della rappresentazione del movimento. Egli riuscì a fissare un solo istante dell’azione, quello cruciale. Apollo e Dafne sono colti nella corsa, nell’attimo esatto in cui la giovane si sta trasformando in albero: un attimo prima era ancora donna, un attimo dopo non lo sarebbe stata più.

Bernini seppe anche portare la materia del marmo alle sue estreme possibilità espressive. Quella dell’artista fu una scommessa continua con i limiti statici della materia, una sfida che sembrò ignorare la fragilità del marmo e che lo spinse alla ricerca sempre più audace di posizioni e torsioni al limite del dovuto, di idee, camuffamenti, accorgimenti che gli consentirono di contestare la forza di gravità.

L’Apollo e Dafne si presenta come un miracolo della tecnica. Le due figure sono ricavate da un unico, enorme blocco e le foglie arrivano a raggiungere spessori minimi, tanto che si potrebbe spezzare con la semplice pressione delle dita.

Così invece narra in versi Gabriele D’Annunzio il momento della trasformazione di Dafne (“Alcyone”, L’oleandro):

“Nell’umidore del selvaggio suolo
i piedi farsi radiche contorte
ella sente e da lor sorgere un tronco
che le gambe su fino alle cosce
include e della pelle scorza fa
e dov’è il fiore di verginità
un nodo inviolabile compone”.

Mariaconsiglia Di Concilio

 

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