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Qatar 2022 e i diritti negati

Continuano le polemiche legate al prossimo Mondiale di calcio
A meno di un mese dal calcio di inizio della gara inaugurale – fra Qatar ed Ecuador – non si placano le polemiche e le preoccupazioni per la kermesse calcistica in terra qatariota. Secondo un’inchiesta condotta dal giornale britannico Guardian, il numero di morti direttamente collegate alla costruzione ed organizzazione del mondiale in Qatar sarebbe di almeno 6500 persone, senza contare gli infortuni sul lavoro, le malattie professionali e le pessime condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i lavoratori (spesso provenienti dall’estero, India e Pakistan in maggioranza) . D’altra
parte, in un Paese dove vige ancora formalmente il sistema della kafala (il diritto dei datori di lavoro di requisire i documenti dei lavoratori immigrati, disponendo di fatto di schiavi) non ci si poteva attendere nulla di meglio. La questione centrale rimane
dunque la scelta a monte fatta dalla FIFA: assegnare il mondiale di calcio ad un regime teocratico dove i diritti sociali e civili sono costantemente violati. Ne sono esempi le terrificanti dichiarazioni del portavoce del Comitato organizzatore sui diritti della comunità lgbt ( “gli spettatori omosessuali sono benvenuti ma non permetteremo effusioni in pubblico”) o ancora la recente polemica sul divieto di esposizione della bandiera arcobaleno, ufficialmente “per questioni di sicurezza”.La FIFA storicamente ha dimostrato di avere un discreto pelo sullo stomaco avendo nella sua storia concesso la massima esposizione mediatica – attraverso
l’organizzazione dell’evento calcistico più importante- a diversi regimi sanguinari: nel 1934 l’Italia fascista; l’Argentina dei colonnelli nel 1978 (con la Coppa vinta proprio dall’Albiceleste); il mondiale in Russia del 2018. Non c’è dunque da stupirsi oggi per le dichiarazioni dei vertici della FIFA in difesa del mondiale in Qatar. Visto il silenzio delle grandi istituzioni calcistiche sul tema della violazione dei diritti umani, si spera almeno in una presa di coscienza da parte dei media sportivi. A parte poche voci fuori dal coro, la questione sembra interessare davvero poco il giornalismo sportivo italiano (o quel che ne rimane). Occorre dunque sperare in una presa di posizione da parte dei calciatori, storicamente trincerati dietro il motto “siamo professionisti, ci occupiamo solo di calcio”? Eppure qualcosa sembra muoversi con le nazionali di Norvegia e Germania che fin dalla fase delle qualificazione hanno denunciato la violazione dei diritti umani e civili attraverso uno slogan sulle magliette, invitando anche le altre nazionali a fare lo stesso.
Probabilmente l’unico segnale chiaro sarebbe il boicottaggio totale della manifestazione; chi avrà il coraggio di prendere finalmente posizione?

 

Francesco Di Tommaso

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