L’omofobia del non detto
Storia immaginaria di un ragazzo di provincia.
Sono nato in una famiglia “normale”. Si andava a messa tutte le domeniche, gli inverni trascorrevano sereni a scuola, le estati al mare. Parenti, amici, conoscenti mi reputavano “normale”. Ragazzo studioso, attento alla famiglia, mai un colpo di testa, un gruppo di amici affidabili, la passione per l’arte, la propensione alle materie umanistiche.
Sapevo raccontare il dolore, mettermi nei panni delle persone, cercare il bello e imprimerlo nelle loro menti. Ero “normale” per gli altri, ma non per me. C’è stato sempre qualcosa di non detto con i miei parenti, amici, conoscenti, qualcosa che custodivo nel mio essere. A volte speravo che qualcuno se ne accorgesse e me lo dicesse in faccia. Così io avrei potuto rispondere “Sì, sono gay”, magari avrei potuto anche urlarlo, ma forse no, non avrei avuto bisogno di urlarlo. Per me era “normale” esserlo.
In realtà non è una condizione da etichettare, guardavo mia sorella e la sua vita “normale” e pensavo che anche lei facesse parte di un’etichetta, quella più conosciuta nella mia realtà, quella più accettata, quella che non aveva bisogno di essere spiegata. Eppure io soffrivo perché non riuscivo a spiegare chi fossi, chi amassi, da chi potessi essere attratto. Con il tempo ho capito che non è importante spiegarlo, è una domanda che serve solo a noi stessi.
Non è che io non fossi “normale” o avessi bisogno di spiegarlo, il mio desiderio era solo essere accettato senza dare spiegazione. Soffrivo perché dovevo inscenare una recita, pur sapendo che, in fondo, tutti lo sapessero, anche mia sorella con la sua vita “normale”. Io, però non potevo sbandierare la mia “etichetta” ai quattro venti, io dovevo continuare a nascondermi dietro la mia vita “normale”.
Mi sono allontanato da questa realtà e, per la prima volta, mi sono sentito libero di essere “normale”, di non dover chiedermi se stessi ferendo le persone intorno a me perché non ero come loro. Non ero costretto a interpretare non detti e atteggiamenti, non dovevo chiedermi continuamente se qualcuno avesse intuito che fossi gay, non dovevo chiedermi nemmeno se i miei interlocutori lo fossero perché per loro non sembrava avere importanza, eravamo davvero tutti “uguali”, liberi di amare a prescindere dal sesso. Ho scoperto una realtà in cui sentirsi “normali”. Non ho mai vissuto nel mio paese episodi di omofobia però, anche ora, che sono sereno un dubbio mi rimane: la paura del non detto è comunque omofobia?
Barbara Maurano