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Il dolente interrogativo di un’anima: La gloria di Giuseppe Berto

Oggi la scelta del libro da proporvi non è stata per niente ardua. Da tempo cercavo un’occasione per parlare di uno dei testi che mi ha maggiormente segnata, sollecitando una miriade di interrogativi, spesso senza risposta, opera di uno dei più grandi scrittori della seconda parte del Novecento, ahimè, caduto nel dimenticatoio. Mi è sembrato quasi un segno, che proprio oggi, Venerdì Santo, dovessi presentare il mio articolo; quale giorno più adatto per rileggere per l’ennesima volta “La gloria” di Giuseppe Berto, quello che Silvio Perrella definisce “un’opera di grande rilevanza stilistica e tematica […] un libro arduo e nettissimo, frutto di una continua rilettura delle Scritture dell’Eterno”.

Pubblicato nel settembre del 1978, il romanzo, nei centoventuno capitoletti che lo compongono, dà voce a Giuda Iscariota, figlio di Simone. Il libro si apre con una visione d’insieme del contesto geografico e politico di Gerusalemme prima, della Giudea e della Galilea in seguito: “Il re dei giudei prendeva autorità da Roma, dall’alto della Torre Antonia i soldati di Cesare dominavano il Tempio, il suono dei corni – oltraggio e monito – colpiva il monte di Sion. […] Altrove, nella Giudea e nella Galilea, in tutta la breve terra dove l’Eterno nostro Dio s’era compiaciuto di collocare il suo popolo per abitare con esso, la grandezza di Roma non trovava cosa con cui misurarsi, i soldati di Cesare non si spingevano in regioni tanto prive di significato, né vi arrivava il suono dei loro corni”.

E’ già Giuda che parla, che racconta, che svela ma noi lettori non lo sappiamo ancora fin quando non si rivela, irrompendo con la forza del pronome personale: “Io, Giuda Iscariota, nato a Gerusalemme da padre mercante, cresciuto all’ombra del Tempio, istruito nella Legge e nelle Scritture, osservante delle norme e dei precetti, legato agli zeloti per cospirazione e fuggito dalla città santa per scampare alla croce, percorrevo le terre d’Israele ansioso che l’Eterno Adonai si manifestasse mostrandomi un segno della sua potenza, o della sua vanità. Ero giovane, e impaziente”.

Nella sua ansiosa e perenne ricerca, Giuda si imbatte in Gesù, un Rabbi che “aveva già la sua morte addosso, non la morte per solitudine e disperazione che i dubbi profeti andavano a cercarsi nei deserti di pietra, ma una morte di martirio, di sangue”. Il Tu con cui Giuda, nel suo monologo, si rivolge al Cristo ha una forza potentissima, crea da subito quel legame indissolubile che li rende speculari, insieme nel percorso di svelamento, insieme nella morte. E in questa contrapposizione dialettica, in questo incontro-scontro tra l’Io e il Tu, si snoda la visione di Giuseppe Berto: Giuda è elemento indispensabile affinché si compia la Scrittura; è tassello necessario per completare il quadro divino.
Io, dunque, dei dodici di cui tanto s’è parlato, e si parla, fui il primo. Vero è che non fosti Tu a chiamarmi, con parola o sguardo o cenno, bensì io ad offrirmi, tra incertezza e passione, tuttavia ostinato nel mio proposito, e Tu non senza perplessità e ritrosia mi accettasti, e invero non era da tutti fare ciò che a me avresti chiesto di fare”.

Giuda, il traditore, colui che venderà Gesù per trenta denari, è sopraffatto dal senso di colpa: “Morimmo press’ a poco alla stessa ora, Tu crocifisso sul Golgota, io poco lontano, impiccandomi, dicono, ad un albero di fico – sarà poi vero ch’era un fico: è uno degli alberi meno adatti per impiccarsi – esemplificando un peccato – si chiama impenitenza finale – cui pare si debba negare misericordia”.

Giuseppe Berto dà la parola a una persona che, prima dell’inizio del libro, “ha già varcato la soglia della vita” (Silvio Perrella). In un gioco metaletterario, Giuseppe Berto gli fa citare scritti di Albert Camus, Saul Bellow, Sigmund Freud; lo fa diventare “pensiero del mondo”.

Il Giuda tratteggiato dall’autore è un uomo solo, alla continua ricerca di un senso, di un segno che dia risposta ai suoi numerosi interrogativi: “Anche Tu mi lasciavi da parte, mi trascuravi. Soltanto quando Ti prendevano pensieri di morte – la previsione dell’ora ultima, mistero ed angoscia – allora soltanto i Tuoi occhi, di sfuggita, mi cercavano, e io con gli occhi Ti rispondevo ch’ero pronto alla chiamata, non sarei mancato. Così accadde: non mancai. Ma, obiettivamente, che bisogno c’era di tradimento? Perché certe profezie dovevano essere adempiute? E io, impiccato ad un ramo? Tu, la Tua morte, che volevi, avresti potuto raggiungerla senza difficoltà né complicità, se era soltanto la Tua morte che volevi. Ma quale altro impegno, o necessità, era nella Tua mente, Rabbi, o nel Tuo cuore, che coinvolgeva e vincolava tutti? Chi mancò poi, a parte quelli che abbandonarono, come previsto? Io? Tu? Il padre?”.

Quella di Giuda è la solitudine di un’anima in attesa perenne.
“Sognavo un romanzo ambizioso e bellissimo e l’ho scritto pensando ai giovani e a tutti coloro che non credono in Dio, ma sentono l’angoscia di non crederci”, così scrive l’autore.

Ripubblicato da Neri Pozza, ve ne consiglio vivamente la lettura. E’ un libro che ti inchioda, ti coinvolge, ti interroga.
E’ un libro che mi ha insegnato ad uscire fuori da una visione manichea, dualistica. E’ un libro che mi ha svelato la potenza vibrante delle sfumature.

Annamaria Petolicchio

 

 

 

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